lunedì 24 dicembre 2018

Il cammino delle Dodici Notti

Inizia oggi il percorso delle Dodici Notti, un cammino di conoscenza e rinascita che si sviluppa dall'interno all'esterno di noi stessi. Per arrivare a conoscerci (... o almeno provarci!) è necessario scendere nel profondo, nell'oscuro con cui la stagione fredda (col suo letargo) ci obbliga a venire a patti. Sarà poi attraverso questa nuova com-prensione che potremo vivere con maggiore consapevolezza e serenità il rapporto con l'Altro, con il Cosmo e con tutto ciò che ci circonda.
Si tratta di incontrarsi con l'Alfa e l'Omega, con Eros e Thanatos, col principio della Vita e con quello della Morte che, insieme, garantiscono la sopravvivenza - secondo le regole di Natura - del nostro Universo. Si tratta di morire per auto-rigenerarsi, attraverso un percorso iniziatico che prevede di affrontare tutte le forze e le zone oscure della nostra anima (le dodici tappe).
Immagine di Sulamith Wulfing
Non a caso, nel mondo germanico e anglosassone, la notte del 24 dicembre era chiamata Modraniht o Modra Nacht, ovvero la "Notte delle Madri", ed era dedicata al culto delle divinità femminili che, come ormai sappiamo, presiedevano tanto alla vita quanto alla morte.
Anche in area mediterranea, in particolare nella Grecia antica, nel periodo solstiziale si svolgeva ad Eleusi l'Αλῷα, un insieme di celebrazioni e sacrifici in onore di Demetra e di tutte le donne non più vergini (sposate e cortigiane). Demetra e Persefone sono le dee greche che compiono lo stesso percorso di Iside, di Inanna e di tante altre divinità femminili: scendono negli Inferi per risorgere a nuova vita, con nuove capacità prolifiche. (Secondo Marguerite Rigoglioso, nel suo volume Partenogenesi - Il culto della nascita divina nell'antica Grecia, la melagrana, di cui Persefone si nutre appena prima di tornare sulla terra, sarebbe simbolo della capacità di partenogenesi della dea...)
Il significato delle Dodici Notti è dunque quello della discesa-specchio, che ci condurrà ad una "morte" finalizzata al riaffermarsi della Vita.
Mi viene in mente, a tale proposito, anche il rituale buddhista del Chod, che più volte ho trovato menzionato nei libri che ho letto quest'anno (casualità?). Secondo il Chod, l'unica strada possibile per l'accettazione del nostro lato oscuro (e dunque per una vera crescita interiore) consisterebbe nello scendere a ri-conoscere i nostri demoni personali. Demetra George, nel suo I misteri della Luna oscura, ne propone un'interpretazione affascinante (che forse avevo già citato su queste pagine virtuali):
«Dobbiamo richiamare il nostro demone dal cortile dove l'abbiamo affamato [...]. Dobbiamo accoglierlo nel tepore della nostra cucina e nutrirlo con alimenti che guariranno le sue ferite, dovute al rifiuto».
La "lotta" che dobbiamo compiere durante le Dodici Notti (simboleggiata anche dai tanti rituali di "caccia selvaggia" sparsi qua e là nel folklore) non è un autoannientamento, una lacerazione fine a se stessa del nostro Io; bensì una battaglia dia-logica fra gli opposti e le diverse forze, destinata a chiudersi - sempre - col riaffermarsi della Vita e con la nostra apertura verso il mondo.

domenica 23 dicembre 2018

Frammentini

Immagine tratta dal Web
E' stato un periodo bizzarro. Statico e rivoluzionario al tempo stesso. Di acciacchi e malanni e di grande energia. Per la prima volta, da quando ho aperto questo blog, mi metto a scrivere senza avere ben chiaro l'argomento di queste parole. Il che non credo sia un male.
A settembre, ho cambiato ancora una volta scuola. Un istituto tecnico della mia città, dove non ero mai stata. Non mi ci sono ancora adattata e non so se mi adatterò. E' un alveare: tante sezioni, tanti ragazzi, tanti colleghi. Molte regole necessarie - me ne rendo conto - ma difficili da tenere a mente per me che ho sempre avuto regole mie, da sposare con la mia creatività.
Per fortuna ci sono i ragazzi: due classi da trenta alunni e una da diciassette. Loro ti riempiono le ore, ti scaldano il cuore. Si ribellano, ti abbracciano, alternano studio e problemi adolescenziali, vogliono parlare, parlare sempre... E io, ovunque vada, li adoro senza riserve.
Il clima si è irrigidito. Di colpo, ha cominciato a far freddo e la mia schiena si è bloccata. Per fortuna a gennaio riprenderò col mio yoga. In compenso, la settimana di sosta forzata (mai usufruito  prima d'ora di un periodo di mutua così lungo!) mi ha permesso di leggere molto. Ho esaurito la saga della Ferrante (da rileggere quanto prima, per fissare nella memoria passaggi e parole che, d'acchito, sono semplicemente fluite dentro di me, grazie alla bellezza mai ostica della scrittura...), proseguito con Il risveglio della Dea di Vicky Noble e presto mi aspetterà un saggio sulle dee nere dell'induismo. Continuo a riflettere sul femminile, senza sosta (sarà un caso, che le mie autrici e cantanti preferite siano sempre donne?) - sul femminile "buono", liberato, che si oppone (per donargli salvezza?) a quello nevrotico, rancoroso delle donne che si credono moderne e che, in realtà, sono le prime vittime sacrificali della granitica società patriarcale.
Sento anche l'esigenza di riprendere e di riorganizzare la mia attività di scrittura, che spesso langue - o viene del tutto sovrastata dalle necessità didattiche: i programmi, gli approfondimenti per le lezioni (che bisogna preparare affinché risultino accattivanti e mai monotone), i temi dei ragazzi da correggere... Desidero spontaneamente un nuovo rigore che si sposi con la bellezza del mutamento, dell'evoluzione, del generare. Concetti che possono sembrare contraddittori, ma che non lo sono nella mia testa e che non lo saranno nella loro realizzazione. Ecco perché, poche righe sopra, scrivevo di non essere dispiaciuta per questo vagare senza meta dei miei pensieri: non è forse dal caos che, se ci sappiamo fare, torna a esplodere la vita?
Pensieri, frammentini.
In verità, non sono mai stata tanto ottimista e sicura del mio potenziale come in questo periodo.

«Ho tenuto alta la mia visione come un raggio di luce bianca, ed è stato un bene per tutti...» (V. Noble, Il risveglio della Dea)

martedì 4 settembre 2018

Di ciò che termina con l'inizio dell'autunno

Alcuni dei testi utilizzati per il progetto
di filosofia e letteratura svolto presso
la Casa Circondariale di Vercelli
I momenti di passaggio sono i più delicati. Per chi, come me, insegna ed è precario, uno dei più importanti è senza dubbio la fine dell'estate: le giornate si accorciano, le rondini smettono di garrire e - sempre più spesso di quanto lo si vorrebbe - ci si ritrova a pensare a ciò che è stato (ai colleghi e agli allievi dell'anno precedente, a cui ci si era affezionati, pur fra tante tempeste...) e a ciò che sarà. In quale scuola finirò quest'anno? Si tratterà di un nuovo istituto? E come saranno, i ragazzi? Sarò in grado di dare loro ciò di cui avranno bisogno? Tante domande e nessuna risposta. Come sempre, queste ultime arriveranno a fine percorso.
Quest'anno, poi, la fine dell'estate coincide anche col termine del progetto che Paolo e io abbiamo realizzato insieme, con la collaborazione delle inarrestabili Valeria Climaco, Mari De Pascale e Antonietta Pisani, presso la sezione maschile della Casa Circondariale di Vercelli. Dopo la bella esperienza di Letti di pomeriggio, questa volta abbiamo portato in carcere la filosofia e la letteratura. Cinque incontri in cui abbiamo parlato di Wittgenstein, Platone, Kant, Freud (sempre e rigorosamente in ordine non cronologico!) e letto poesie e brani di Mariangela Gualtieri, Wisława Szymborska, Alessandro D'Avenia, Sylvia Plath. Pensieri e parole di autori diversi per epoca, formazione e inclinazione, riuniti ad ogni lezione sotto un unico ampio tema (il linguaggio, il pensiero, l'amore e l'amicizia, l'inconscio...) e che si sono trasformati, incontro dopo incontro, in un'occasione di dialogo e confronto.
Calda, bella e consolante la partecipazione delle persone detenute, in particolare di quello "zoccolo duro" che ci ha seguito (nonostante il caldo afoso del mese di agosto!) imperterrito durante tutte le nostre divagazioni. Non dimenticheremo facilmente i loro volti, le loro storie e le risate a cuore aperto che ci hanno regalato - nella speranza di poterli reincontrare ancora sul nostro cammino. Magari in autunno, quando l'inizio della nuova stagione porterà con sé nuovi progetti - forse da realizzare ancora presso la Casa Circondariale...

sabato 11 agosto 2018

I misteri della Luna oscura: riflessione sull'Ombra

«Il passaggio dalla luce al buio o dal buio alla luce si manifesta attraverso segnali cosmici: passaggi di comete, congiunzioni di pianeti ed eclissi, che influenzano la terra in svariati modi. Per capirlo, è necessario conoscere il linguaggio della Natura» (H.H. Mamani, Negli occhi dello sciamano).
In alchimia, la fase di "morte" e di caos è detta nigredo: non si tratta di una morte definitiva, bensì di un passaggio necessario per ottenere una nuova vita. Secondo alcuni, anche il periodo che stiamo attraversando, così confuso, in cui Madre Terra e i suoi figli tanto ci appaiono in pericolo, ci condurrà ad un'era nuova, vitale, chiamata "Inkariy", ovvero un'epoca di illuminazione e di amore universale. Desideriamolo con tutte le nostre forze, perché davvero ne abbiamo bisogno, giunti come siamo nel momento più critico.
Ciò che è certo, è che non potremo in nessun modo raggiungere la Luce senza prima passare attraverso l'Ombra - e l'Ombra non va temuta, ma compresa.
In occasione della scorsa eclissi lunare, il 27 luglio passato, sul Web se ne sono lette un po' di tutti i colori: da articoli "scientisti" al 100% ad allarmanti post su pagine pseudo-wiccan che mettevano in guardia rispetto ad eventuali sbalzi d'umore o ad attacchi di "irritabilità lunare". Il tutto condito da una superficialità disarmante.
In verità nulla di ciò che accade all'esterno potrà influenzare in modo sorprendente il nostro interno, perché le leggi di Natura prevedono una perfetta corrispondenza fra microcosmo e macrocosmo. Nessuna eclissi lunare risveglierà magicamente l'Ombra in noi; essa, piuttosto, sarà specchio e immagine del nostro lato oscuro e ce lo riporterà a coscienza, spingendo i più accorti (e consapevoli) di noi a una riflessione su di esso che possa portarci nuove risposte.
Immagine da Pinterest
Io, proprio nei giorni successivi all'eclissi totale, ho recuperato un libro di cui da tempo volevo parlare qui sul blog: I misteri della Luna oscura, di Demetra George, edito da Venexia. Si tratta di un volume molto interessante, che descrive i poteri oscuri delle divinità lunari (Nyx, Ecate, Lilith, Medusa...) come il veicolo attraverso cui raggiungere il nostro inconscio e risolvere i principali "nodi" che ci attanagliano e che non ci permettono di vivere "centrati" e in piena consapevolezza (come vorrebbe indicarci l'attuale novilunio in Leone). Per questo, la George ci invita a non combattere la nostra parte d'Ombra, bensì ad accettarla come parte integrante del nostro essere e come importante fonte di energia. Non dobbiamo accettare i dettami della società patriarcale e temere il serpente che simboleggia la kundalini (l'archetipo è quello di Medusa - e non a caso molte donne sono molto schizzinose nei confronti dei serpenti...), poichè esso ci permette di risvegliare la forza più profonda del Femminile - che è una forza saggia, lungimirante, capace di risanare e di mantenere l'unità nel Creato.
Secondo l'antica pratica buddhista del Chod ("strappare la paura e la delusione dalla radice"), i nostri demoni interiori non vanno annientati, ma com-presi e, dunque, amati: «Se nutriamo il nostro demone con rabbia e frustrazione continuerà a darci fastidio, se lo nutriamo con amore e compassione evolverà. Amando il demone, si dissolve. La tensione è nel dualismo e mandare via i demoni causa maggiori sofferenze... Con il tempo, con amore e compassione i demoni evolveranno e saranno liberati».
L'atteggiamento che noi tutti dovremmo avere verso la nostra Ombra dovrebbe essere, a mio avviso, quello di un genitore verso un figlio: quest'ultimo deve essere sì guidato con regole ben precise (guai a non farlo: la relazione sprofonderebbe nel caos!), ma deve essere al tempo stesso nutrito e amato per ciò che è, senza desideri di rivalsa.
E' proprio sull'Oscurità che dobbiamo lavorare (ciascuno nel suo intimo), se vogliamo raggiungere la luce dell'Inkariy - che è una luce al tempo stesso individuale e universale.

giovedì 21 giugno 2018

Letti di notte (anzi, no... di pomeriggio!) 2018

Oggi è il solstizio d'estate... ed è anche la notte bianca dei libri, delle librerie e delle biblioteche. Sono belle, queste iniziative amiche della pagina stampata, delle parole concatenate, delle storie immaginate (e, sì, lo so: devo ancora parlare, su questi fogli virtuali, dell'iniziativa dei MIEI ragazzi dell'ITCG "P. Calamandrei", che hanno aderito a "Il maggio dei libri" parlando - e leggendo - di libertà. Sono vergognosa!).
Per l'occasione, l'infaticabile Roberta Invernizzi (filosofa e scrittrice) ha organizzato un incontro presso la Casa Circondariale di Vercelli. Da tanto tempo Roberta stava lavorando a questa iniziativa, raccogliendo presso privati e librerie della zona testi e volumi di ogni tipo per i detenuti. Oggi ne ha portati in dono circa 200 e, in più, ha regalato alle persone detenute che hanno partecipato all'incontro, un pomeriggio di chiacchiere, riflessioni e letture.
Abbiamo partecipato anche Paolo e io, insieme ad Alessandro Barbaglia (scrittore e librario), a Raffaella Lanza, giornalista de "La Stampa", e alle volontarie Mirella Ruo e Alfonsina Zanatta. Due ore di riflessioni (sulla filosofia, sulla poesia e sul perché della narrativa), chiacchiere, condivisione di esperienze e di letture di ogni tipo: da Shopenhauer alla Szymborska, passando attraverso fiabe che parlano di alberi, di bambini mai troppo piccoli per essere coraggiosi e di poesie ancora da scrivere.
Lo stesso "pubblico" dei detenuti non è stato un vero e proprio pubblico, ma un interlocutore attento, generoso e, in alcuni tratti, anche molto divertito.
Bei momenti, bei sorrisi, forti strette di mano, che hanno unito il "dentro" e il "fuori" permettendo a noi tutti di essere "altro" rispetto alle consuetudini, ai soliti pensieri che ci assillano, alle microscopiche preoccupazioni del quotidiano a cui (troppo spesso) permettiamo di prendere il sopravvento su di noi.
Occasioni come questa (per la quale ringrazio tre volte Roberta: una a nome mia, una a nome di Paolo e una in nome di tutte le parole che svolazzano lievi sopra le nostre teste), mi ricordano che cosa voglia dire essere vivi qui e ora... e mi tengono ben desta, lontana da ogni DISATTENZIONE.


Disattenzione: la poesia che ho portato in dono oggi alla
Casa Circondariale di Vercelli.

venerdì 1 giugno 2018

Un orto a tutto tondo!

Sono in ritardo, sono in ritardo! Chiedo scusa a tutti, ma durante il mese di maggio non sono riuscita ad aggiornare il blog! Il risultato è che ora ho un sacco di materiale arretrato, che cercherò di smaltire nei prossimi post - dato che, con la fine della scuola, il prossimo 8 giugno, dovrei riuscire ad avere un po' più di tempo libero a mia disposizione.
Inizio, oggi, col trascrivere alcune riflessioni sull'orto, che avevo già annotato sul mio quaderno. In questo modo, riuscirò anche a parlare di uno dei libri che ho terminato in queste settimane, La virtù dell'orto di Pia Pera.
Si tratta di un saggio molto scorrevole, in cui la Pera non parla solo della sua esperienza da "ortigiana", ma anche (e soprattutto) dell'attività di coltivazione come mezzo per tornare ad avvicinarci alla Terra e ai cicli naturali. Al bando, quindi, le coltivazioni intensive e l'orticoltura dei precetti: per l'orto (e per il giardino) non valgono formule né dogmi. L'esperienza altrui può senz'altro essere preziosa, ma non dovrà mai trasformarsi in un manuale da seguire punto per punto, poiché non solo il «nostro particolare angolo di mondo» (com'è bella questa espressione!) è un microcosmo con caratteristiche tutte sue, ma anche noi interagiamo con esso attraverso la nostra indole, la nostra sensibilità, la nostra capacità di ricevere e decodificare i messaggi della terra - facoltà che sono strettamente individuali e "animiche".
Ecco che dunque l'orto-giardino ci si presenta come una dimensione viva (fatta di tutti i tipi di piante e arbusti che la abitano; degli animali e degli insetti che la frequentano; dell'esposizione al sole o all'ombra... eccetera), che interagisce con noi e che con noi stabilisce un vero e proprio legame.
Per questo, come dicevo, non ha molto senso ridurre il giardinaggio o l'orticoltura a una serie di rigide regole, che non lasciano spazio a quel quid di spirituale che è insito nel rapporto Uomo-Natura. Per rendere fertile e fruttifera la terra, occorre com-prendere, più che credere. 
L'orto circolare della Cercaluna
Quando vado nel mio orto, non penso solo a raccogliere le verdure che ho coltivato o a studiare nuove strategie per limitare l'azione offensiva dei parassiti (offensiva... per chi, poi?). Piuttosto la prima sensazione che ho (mentre guardo Timmy correre felice verso il cancello, per ispezionare tutto il terreno) è di ritrovare una dimensione familiare: una sorta di "ritorno a casa" che (indipendentemente dall'ora del giorno in cui esco) mi ritempra da nervosismi e ansie pregresse. Questo perché sto tornando ad una dimensione originaria e ho la volontà di relazionarmi ad essa. Sto re-imparando un nuovo linguaggio - che già conoscevo in precedenza e che avevo dimenticato. Ecco perché su di me la Natura ha un effetto tanto calmante. Difficilmente potrà provocare gli stessi benefici su chi è refrettario, dimentico - su chi non ha interessa a imparare né a ricordare quel legame, quella relazione, quel linguaggio.
Forte delle mie precedenti esperienze (ma la modestia è sempre e comunque d'obbligo, poiché noi esseri umani sappiamo essere così ciechi!), quest'anno ho ingrandito la superficie del mio orto, affiancando al rettangolo già presente lo scorso anno, anche un'area a cerchi concentrici. L'orto rotondo (che in alcune aree del mondo viene coltivato rialzato) permette di consociare più facilmente le piante e veicola, attraverso i suoi cerchi concentrici, le energie vitali e creatrici della Terra.
Mamma e papà nel nuovo orto rotondo
Non solo: insieme a papà, ho costruito dei piccoli "recinti" per le coltivazioni più delicate (la lattughina tenera, ad esempio): si tratta dell'adattamento in chiave moderna di un sistema di coltivazione medievale e, finora, ha dato i suoi frutti!
Lavorare insieme ai miei familiari, condividere progetti e scoperte, a volte persino battibeccare perché non si è d'accordo su qualcosa: l'orto-giardino non solo ci riconcilia con la Natura e con i suoi ritmi, ma permette di coltivare legami, momenti di convivialità, esperienze in cui si fa, si produce, ci si sporca le mani... In questo senso "lavorare la terra" diventa davvero un percorso interiore e spirituale, oltre che esperienziale: il Bene, infatti, «viene trovato solo lottando, superando ostacoli e divieti, mettendocela tutta. Seguendo con fiducia un istinto che ci dice dove si trova ciò che ci farà guarire, trovare la bellezza e l'energia della Vita» (P. Pera, La virtù dell'orto, p. 65).

sabato 26 maggio 2018

L come Libertà - Parte seconda

Parte prima

Dal dizionario etimologico
LIBERTA': dal latino libertas, -atis, l'essere libero, lo stato di chi è libero


La volta scorsa avevo concluso con un interrogativo abbastanza inquietante: «Come si può rendere libero ciò che è già morto?», in riferimento al progressivo allontanamento delle giovani generazioni dai libri e dalla lettura.
La mia era una domanda volutamente provocatoria, formulata in funzione del dibattito che alcuni colleghi dell'ITCG "Piero Calamandrei" di Crescentino (VC) e io abbiamo voluto proporre ai nostri alunni, nell'ambito dell'iniziativa nazionale Il maggio dei libri.
Seduti in cerchio in aula LIM, abbiamo chiesto ai nostri ragazzi di riflettere sul tema della lettura e della lettura come strumento di libertà. Abbiamo chiesto loro di rispondere ad alcune semplici domande (Cos'è per te la lettura? Che cos'è per te la libertà? Secondo te, la lettura è libertà?), ottenendo poi sulla lavagna multimediale una wordcloud delle loro risposte:

Le wordcloud realizzate dagli alunni
del "Calamandrei"durante il dibattito
Durante la discussione che è avvenuta dopo la compilazione del piccolo questionario, è emersa in modo particolare la preoccupazione dei giovani riguardo alle nuove modalità di comunicazione: è vero che gli adolescenti di oggi sono i principali fruitori della tecnologia e delle nuove forme di "socialità" (!) ad essa connesse; ma, in verità (e questo l'ho già riscontrato anche negli anni scolastici precedenti, attraverso la lettura dei temi o durante alcuni momenti di conversazione in classe), essi subiscono questo stato di cose, anziché esserne attori consapevoli. Trascorrono le loro giornate con uno smartphone in mano perché "così fan tutti" (i loro genitori in primis), ma, se stimolati alla riflessione, si dicono preoccupati: «Non è bello parlare così, sembre tramite chat o Whatsapp. Non si ha più voglia di incontrarsi, di fare delle cose insieme...»
E la lettura? Perché si legge così poco, ormai?
«Perché è più comodo. E' più facile guardare un video su YouTube. Tutto è già pronto. Immaginato da altri. Ma questo è anche molto triste.»
«E' un po' quello che succede anche con i film. Ma almeno, per guardare un film, a casa o al cinema, devi prenderti del tempo. Magari ci vai pure con gli amici. Su Internet, invece, è "tutto e subito" e non fai più nessuno sforzo. Però sei anche sempre solo.»
Molto tristi, queste osservazioni. Ma è comunque già importante che siano state fatte - ad alta voce e di fronte a un piccolo gruppo di coetanei e ad alcuni insegnanti. Significa, ai miei occhi, che non tutto è morto (per tornare alla conclusione del post precedente), che c'è ancora spazio per la consapevolezza.
La locandina dell'iniziativa
(realizzata dal prof. A. Averono)
In realtà io credo che, finché siamo vivi con questo corpo in questo mondo, vi sia sempre la possibilità di rinascere ad una nuova vita (animica, spirituale, intellettuale): sempre, infatti, noi esseri umani possiamo fermarci, interrompere la ripetizione della nostra routine (più o meno virtuosa) e porci domande atte a fornirci le risposte necessarie a migliorare la nostra vita. Chi siamo? Che cosa stiamo facendo e perché? In che modo potremmo realizzare nel nostro piccolo mondo personale quel cambiamento che desideriamo avvenga ad un livello più alto?
A dire il vero, bambini e adolescenti sono più bravi in questo rispetto agli adulti, perché più malleabili e più disposti al cambiamento. Non sono ancora prigionieri come noi di schemi mentali, abitudini e convinzioni pseudo-moraleggianti e sono perciò più bravi e più rapidi nello sperimentare cose nuove.
Nell'ambito dell'iniziativa che abbiamo realizzato durante quest'ultimo anno scolastico coi ragazzi, lo dimostra il fatto che un nutrito numero di studenti (a volte svogliati e spesso poco inclini a leggere!) abbia deciso di partecipare spontaneamente all'iniziativa Il maggio dei libri - La lettura come libertà, un vero e proprio percorso che ha avuto inizio nel mese di aprile e che ha avuto la sua conclusione in una lettura ad alta voce, nelle piazze e nelle strade di Crescentino, di brani letterari scelti dagli alunni e proposti dagli insegnanti. Tratti dalle opere di Ken Kesey, Charles Bukowski, Stephen King, Gustave Flaubert, Lev Tolstoj, Henry David Thoreau, Ursula K. Le Guin, Ray Bradbury e molti altri. I brani sono stati presentati come dono rivolto ai passanti e al pubblico e come occasione per riflettere sulla forza evocativa ed eversiva della letteratura ed è stato molto bello (per non dire consolatorio) vedere così tanti ragazzi partecipare di propria iniziativa e ciascuno a suo modo: c'era chi leggeva, chi ha preferito cantare, chi ballare, chi giocolare; chi, infine, ha curato l'allestimento del banchetto itinerante di bookcrossing.
Questo dimostra che non bisogna mai perdere la speranza di veder nascere una piantina dal seme che abbiamo interrato poiché - alchemicamente parlando - la vita nasce SEMPRE dopo aver attraversato una "mortale" (ma transitoria) fase di caos. Così, i nostri adolescenti svogliati e apparentemente cellulare-dipendenti potranno stupirci, realizzando una giornata tutta dedicata ai libri e ricca di entusiasmo e di meravigliose vibrazioni.


I ragazzi e i docenti (piccola piccola... ci sono anch'io!) che hanno partecipato
all'edizione Il maggio dei libri 2018 - La lettura come liberà

lunedì 16 aprile 2018

Per dieci minuti

In questa primavera pigra, che tarda ad arrivare, c'è parecchio tempo per leggere. Oggi ho iniziato il nuovo libro di Pia Pera (nuovo per me, la seconda edizione è del 2016) La virtù dell'orto, perché ormai, sole o non sole, è arrivato il tempo di risvegliare la terra...
Nei giorni scorsi, però, mi sono buttata - letteralmente - nella lettura di due volumi di Chiara Gamberale, La zona cieca e Per dieci minuti, che mi sono stati regalati nelle settimane passate.
La Gamberale ha una scrittura rapida, senza fronzoli, coinvolgente. Unputdownable, alla Roddy Doyle.
Si tratta di due romanzi fortemente autobiografici. Il primo, La zona cieca (ripubblicato dopo dieci anni), è la dilaniante storia d'amore di Lidia e Lorenzo. Tragica. Che toglie il fiato. Un'automobile lanciata a tutta velocità verso un inevitabile malinconico finale.
Il secondo - a mio parere più leggero, ma capace comunque di com-muovere nel profondo il lettore - Per dieci minuti, prende le mosse da una frase di Rudolf Steiner: «In ogni essere umano esistono facoltà latenti attraverso le quali egli può giungere alla conoscenza del mondo». E' quello che cerca di fare Chiara, la protagonista, quando, dopo essere stata lasciata dal marito ("Mio Marito", come lo chiama lei: un'entità senza nome, ma con le iniziali maiuscole), decide, su consiglio della psicologa ("T.", di sveviana memoria?) di iniziare un percorso particolare: ogni giorno dovrà provare, per dieci minuti, a fare qualcosa di completamente nuovo. Qualcosa che Chiara non ha mai sperimentato prima d'ora. Così la giovane donna si ritrova a cucinare, ricamare, camminare all'indietro, indossare un costume di Babbo Natale, leggere Harry Potter e i tarocchi, tagliare i capelli, guardare video su YouPorn - eccetera eccetera eccetera. In questo modo, gradualmente, non senza pianti e difficoltà, scoprirà di essere ancora capace di aprirsi al mondo e di amare. Forme di Amore diverse (forse?) da quella per Suo Marito, ma ugualmente vivificanti. Una vicenda che, capitolo dopo capitolo, ci conduce a un finale lieto e alternativo. Probabilmente non quello che ci aspettavamo, ma (ce ne accorgiamo nel corso delle ultime pagine) quello più giusto per Chiara e, in fin dei conti, per noi tutti.
Il "cambiamento" (ri-generante, che contempla una totale rivisitazione di tutti i rapporti umani della protagonista - da quello col marito a quello con la casa paterna, passando attraverso alla dipendenza fisica ed emotiva dai genitori) che si manifesta nell'autobiografica Chiara non è uno stucchevole happy end da commediola, ma una matura assunzione di responsabilità, che include anche l'accettazione del termine di rapporti ormai divenuti infecondi. Non dobbiamo necessariamente essere in una coppia, per poterci dire "realizzati". Né avere un figlio. O svolgere il lavoro dei nostri sogni.
Per quanto agrodolce (com'è nello stile della Gamberale), Per dieci minuti è, al tempo stesso, una bella storia e un'ottima palestra di consapevolezza.
«Cambiare è mortale.»
«Chiara?»
«Sì?»
«Cambiare è vitale.»
[...]
«Insomma?»
«Non ho più un amore. Non ho più una casa che sento davvero mia, non ho più un lavoro che mi piaceva. Non ho un perno: ecco. Ma la vita che gira intorno a questo perno che non c'è, forse, non è poi così male.»
C. Gamberale
Per dieci minuti
Feltrinelli
P. 187

sabato 17 marzo 2018

L come Libertà

Dal dizionario etimologico
LIBERTA': dal latino libertas, -atis, l'essere libero, lo stato di chi è libero


Libertà. Essere liberi. Vivere liberi. Saper donare ad altri la libertà.
In latino, il termine libertas ha evidenti analogie col termine liber, "figlio", come ad indicare l'intima connessione tra l'atto di generare la vita e la capacità di permettere a questa vita di costruirsi e svilupparsi in piena autonomia. Poiché questo dovrebbero essere i figli: non un'appendice di genitori scornati, ma un ponte luminoso e indeterminato verso il futuro. Ti dono la vita, che è il regalo più grande; e poi tu sarai libero di farne ciò che desideri.
Non solo. Liber, in latino, significava anche "libro". In particolare, la parte più interna della corteccia degli alberi che, nell'antichità, veniva usata come supporto per la scrittura.
In fin dei conti, se ci pensiamo bene, un libro (un romanzo), per chi lo scrive, è un po' come figlio. Si crea un mondo (l'ambientazione), si crea la vita (i personaggi). Un romanziere è simile a Dio e ama tutti i suoi figli. Mi colpirono molto, tre anni fa, le parole della scrittrice Elisa Casseri che, venuta a incontrare gli studenti dell'istituto "Piero Calamandrei" di Crescentino (VC), raccontò di come tutte le sue amiche e parenti stessero, in quegli anni, mettendo su casa e avendo dei bambini. Lei andò da sua madre e le disse: «Io non ho fatto un figlio. Io ho scritto un libro», riferendosi al suo Teoria idraulica delle famiglie.
La protagonista di Storia di una ladra di libri in una scena
dell'omonimo film, mentre sottrae il suo primo libroal rogo nazista.

Una volta scritti, poi, i libri vengono lasciati liberi di andare nel mondo, testimoni essi stessi di libertà. Non a caso le epoche più oscurantiste e i regimi più crudeli e retrivi hanno sempre amato molto i roghi di libri. Controllare le persone attraverso le parole (o la loro negazione), annichilirle attraverso la distruzione della fertilità (e, dunque, della libertà del pensiero). E' quanto accade nel romanzo Fahrenheit 451 di Ray Bradbury o nel più recente Storia di una ladra di libri, di Markus Zusak.
Si intuisce così quanto complesse e numerose siano le implicazioni e le manifestazioni della parola "libertà", il cui utilizzo appare abusato e scontato.
Oggi, infatti, spesso confondiamo il termine "libertà" con un vago lassismo: dei costumi, delle opinioni, del pensiero. Tutto è ammissibile, tutto è giustificabile, perché, dopotutto, "siamo liberi" (!).
Foto collage di © Kevin Dowd
Non vi è nulla di più sbagliato, dal momento che la libertà ha bisogno - più di ogni altra apirazione e tendenza dell'animo umano - di regole precise. La prima (banale, ma tanto sovente dimenticata) è che la nostra libertà finisce dove inizia quella altrui. La libertà è una forma d'amore e, come tale, prevede il riconoscimento dell'Altro. In caso contrario, non si tratta di libertà, ma di un caos indistinto dove si fatica a distinguere il bene dal male, il giusto dall'ingiusto.
La libertà è, come abbiamo detto all'inizio di questa riflessione, il primo e più importante dono che possiamo fare ai nostri figli (liberi). Insieme ad essa (poiché connaturate ad essa) dovremmo saper dare loro delle regole. E' significativo che, in un'epoca in cui tanto fatichiamo a definire e ad afferrare i contorni del concetto di "libertà", al tempo stesso non riusciamo più a dare regole e strumenti ai nostri figli, a renderli autonomi (e dunque "altro" - quell'altro a cui dovrebbe essere sempre riconosciuto e concesso il valore della libertà) da noi.
E così come sono sempre più inefficaci i genitori, allo stesso tempo viene svilita presso le nuove generazioni l'importanza della lettura. Non vi è libertà alcuna nella rinuncia a quello strumento che, primo fra tutti, dovrebbe educarci a donare e a pretendere la libertà.
Capite ora perché i libri sono odiati e temuti? Perché rivelano i pori sulla faccia della vita. La gente comoda vuole soltanto facce di luna piena, di cera, facce senza pori, senza peli, inespressive. (Fahrenheit 451)
Così, ogni volta che sento uno dei miei alunni dire: «C'è da leggere? Ah, allora no, non mi interessa!» mi spavento e mi intristisco: mi fanno paura, quelle facce di luna piena, così levigate e senza vita.
La libertà - credo - è connessa alla Vita, alla fertilità che ripete e riproduce la vita su questa terra. Ma come si può rendere libero ciò che è già morto?

[Continua...]

sabato 20 gennaio 2018

Napoli velata

(Attenzione: il seguente post può contenere spoiler!)

Napoli velata
di F. Ozpetek è un film sul senso superiore della vita. Un vero e proprio percorso alchemico che passa attraverso la morte (violenta, che conduce inevitabilmente alla devastazione del corpo) per sfociare infine nella rinascita sentimentale e spirituale della protagonista. Il tutto ambientato in una Napoli misteriosa ed esoterica, decadente e barocca al tempo stesso.
La vicenda si apre con una scena suggestiva, quella della "figliata dei femminielli", rappresentata in un elegante appartamento partenopeo, di proprietà della ricca e tormentata Adele. Qui la protagonista, Adriana (nipote di Adele), incontra un giovane e affascinante uomo, Andrea Galderisi, con il quale trascorrerà un'infuocata notte d'amore. Al risveglio, Andrea le propone di rivedersi e tutto lascia presupporre che quella singola avventura possa trasformarsi in una vera e propria relazione.
Alle sei del pomeriggio, Adriana si reca al luogo dell'appuntamento, ma Andrea non si presenta. La donna rimane delusa, controlla più volte il cellulare, senza tuttavia ricevere notizie da parte del ragazzo. Il giorno dopo, sul posto di lavoro (Adriana è un medico legale), fa una triste e raccapricciante scoperta: il cadavere che lei e i suoi colleghi si stanno accingendo ad esaminare è proprio quello, orrendamente sfigurato nel volto (gli sono stati strappati gli occhi), di Andrea Galderisi.
A partire da questo momento, la vita di Adriana inizierà a spronfondare sempre di più in un vortice in cui realtà e illusione si confondono, alla ricerca spasmodica di una Verità superiore, che non riguarda soltanto le modalità dell'assassinio di Andrea, ma anche l'intera esistenza della protagonista e i misteri stessi della Vita, della Morte e dell'Amore, autentica forza ancestrale che ci fa dibattere fra i princìpi eterni di Eros e Thanatos.
La storia raccontata da Ozpetek è perciò, come già accennato all'inizio di questa recensione, una riflessione alchemica sul senso dell'esistenza. La stessa scena iniziale del "parto dei femminielli" è altamente simbolica ed esoterica e costituisce, da sola, la cifra interpretativa di tutto il film: i femminielli, infatti, non sono da identificare tanto con gli omosessuali; essi rappresentano piuttosto l'ermafrodito, archetipo pre-cristiano che racchiude in sé entrambi i sessi e, dunque, tutte le potenzialità creatrici e poietiche della Natura. Non a caso il mito dell'ermafrodito è strettamente legato al culto della magna mater Cibele, i cui seguaci spesso si autoeviravano per seguire l'esempio di Attis.
Il "parto dei femminielli" nella sequenza iniziale del film.
Ecco, dunque, la vita che erompe sullo schermo e nel film di Ozpetek, attraverso la rappresentazione teatrale (il teatro nel cinema, in un suggestivo gioco ad incastro...). Ma la vita è intesa qui non solo come nascita fisica, concreta e biologica dell'individuo, bensì come ricerca estenuante, come percorso iniziatico il cui fine ultimo è lo Svelamento. Il "parto dei femminielli" segna infatti l'inizio della nigredo (in quell'istante ancora inconsapevole) di Adriana e la morte violenta (causata, come si vedrà nel finale, dalla menzogna) di Andrea la costringerà a guardarsi allo specchio, a svelare e a svelarsi.
Napoli velata è un film complesso, ma al tempo stesso accattivante: il ritmo cattura l'attenzione dello spettatore dall'inizio alla fine e i simboli sparsi qua e là nel corso della vicenda (gli occhi; le maschere; i ruoli "doppi" sostenuti dai due attori principali, Giovanna Mezzogiorno e Alessandro Borghi, che interpretano rispettivamente sia Adriana sia la madre di quest'ultima, Isabella, e sia Andrea sia Luca, il "gemello" dell'uomo assassinato; la capacità di "vedere" della veggente Donna Assunta; e, infine, non da ultimo, l'utero velato dell'Ospedale degli Incurabili) ci aiutano a decifrare il senso "altro" del racconto e a seguire la protagonista attraverso un autentico percorso di ri-generazione e di presa di coscienza.

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