giovedì 7 dicembre 2017

Assassinio sull'Orient Express

(Attenzione: il seguente post può contenere spoiler!)

Sono un'accanita lettrice dei gialli di Agatha Christie fin dall'adolescenza, Assassinio sull'Orient Express è uno dei miei romanzi preferiti, lo rileggo periodicamente, conosco a menadito particolari e battute e, per me, l'unico Poirot possibile è quello interpretato da David Suchet.
Con queste premesse, ammetto di non essere stata ben disposta nei confronti di questo remake firmato da Kenneth Branagh (che in passato non sempre mi è piaciuto e che ho trovato un po' lezioso in alcune interpretazioni), nonostante il cast stellare: da Judi Dench a Michelle Pfeiffer, passando per Johnny Depp.
Tuttavia non potevo esimermi. Ero curiosa di vedere come il buon Branagh sarebbe uscito dal confronto non solo con la Christie, ma anche col vecchio Orient Express del '74, diretto da Sidney Lumet, con Albert Finney nella parte dell'infallibile ispettore belga. (No, nemmeno Finney mi era piaciuto...)
Sicuramente la pellicola di Lumet è più fedele al romanzo per ciò che concerne sia l'ambientazione sia le scelte della sceneggiatura. Branagh, al contrario, si concede il lusso di qualche immotivata scena di violenza (il conte Andrenyi e Arbuthnot non sfigurerebbero in un action movie) e di alcune scene girate in esterno, rinunciando così in parte all'atmosfera abbastanza claustrofobica dell'originale. Scelte che potrebbero senz'altro far storcere il naso ai puristi, se non passassero in secondo piano di fronte ad un'altra modifica importantissima: il tocco di modernità conferito al personaggio di Poirot.
Il detective del celebre romanzo di Agatha Christie (pubblicato nel 1933) appartiene alla prima stagione del romanzo giallo, inaugurata da Conan Doyle e che ha nella Christie proprio la sua principale rappresentante: al pari di miss Marple, egli indaga senza tentennamenti, mettendo al servizio della Giustizia le sue straordinarie facoltà deduttive. Nel finale, si trova di fronte a un dilemma: rivelare alle autorità la vera identità dei colpevoli (rei di aver dato la morte a un delinquente, un uomo privo di scrupoli che, anni addietro, aveva assassinato Daisy Armstrong, di soli cinque anni, riuscendo poi a sfuggire all'arresto) oppure concedere l'impunità ai famigliari e agli amici della piccola e mai dimenticata Daisy?
Nel romanzo (e così pure nella versione cinematografica del '74), il nostro Hercule sembra avere ben chiara la necessità morale di concedere un'attenuante agli assassini, proponendo egli stesso (e senza scomporsi troppo) ben due possibili soluzioni al caso - suggerendo in tal modo a Bouc (a cui verrà lasciata la difficile scelta conclusiva) la possibilità di ricorrere ad una scappatoia. Poirot, Bouc e il dottor Constantine si trovano di fronte a un bivio; ma l'investigatore appare come il personaggio meno tormentato dal dubbio. Tant'è che la Christie sceglie il personaggio della signora Hubbard, per dar voce al dissidio che coglie i protagonisti e il lettore nel capitolo conclusivo:
«Bene, ora sa tutto, signor Poirot. Che facciamo? Se la cosa deve avere un seguito, non potrebbe incolpare me e me soltanto? Infatti, io avrei molto volentieri vibrato da sola dodici colpi di pugnale a quel dannato, e non soltanto perché era stato la causa della morte di Daisy, di Sonia e del bambino non ancora nato, che oggi sarebbe vivo... No, non per questo soltanto: ma altri bambini erano stati torturati e uccisi da lui; e altri ancora, per opera sua, sarebbero potuti incorrere nella stessa sorte. La società lo aveva moralmente condannato: noi non facciamo che eseguire la sentenza.»
Come dicevo, anche il Poirot di Finney segue la stessa strada. Egli sa bene da che parte dirigersi - e il film si conclude con una scena quasi di festa, con un brindisi finale condito da sorrisi.
Al contrario, il Poirot di Branagh è un uomo del nostro tempo, privo di certezze granitiche (eccezion fatta per quelle che gli derivano dalle sue abilità investigative) e, come noi, si arrovella, si tormenta, porta al limite e all'esasperazione il colloquio finale con tutti i personaggi (esposti al freddo, in mezzo alla neve, anziché essere raccolti nel confortevole vagone ristorante del treno). E' un Poirot molto moderno e molto umano, quello di Kenneth Branagh (così come è molto contemporanea e commovente la disperazione di Michelle Pfeiffer, che addirittura afferra una pistola e grida: «Io sono già morta insieme a Daisy») e questa sua fragile simpatia ci conquista e ci inquieta al tempo stesso.
Non è un finale sorridente, quello di quest'ultimo Assassinio sull'Orient Express: Hercule Poirot scende dal treno, chiamato ad un'altra missione, e si ritrova di nuovo al freddo, immerso in un gelido paesaggio innevato. Davanti a lui scorre il treno e, dai finestrini, si vedono i volti accigliati di tutti gli altri personaggi. La contessina Andrenyi getta via il suo Barbital ma, in generale, non si respira un'aria di reale liberazione: il povero Masterman è malato di cancro all'ultimo stadio, Linda Arden porta una parrucca, MacQueen è alcolizzato - quanto ad Hercule, chissà se tornerà mai a casa...
Insomma, le modifiche apportate da Branagh all'originale di Agatha Christie, per quanto importanti, risultano comprensibili, giustificabili nell'ambito di una rielaborazione attuale del romanzo. E questo è ciò che conta. Dopotutto, cinema e letteratura non sono forse un dialogo metamorfico e continuo col passato?
Dispiace solo per la pinguedine di MacQueen (in questo caso il confronto con la pellicola di Lumet proprio non regge e Josh Gad ci fa rimpiangere amaramente Anthony Perkins), per i calcioni rotanti da super eroe del conte Andrenyi e per i baffi di Kenneth Branagh, che - no - proprio non sono quelli di Hercule Poirot...

giovedì 30 novembre 2017

Come Mary Poppins...

Il mestiere dell'insegnante è il più bello del mondo - a patto che venga svolto per reale passione e non (solo) per portare a casa uno stipendio a fine mese.
Purtroppo, finché si è precari, si è costretti a cambiare scuola ogni anno (o quasi) e questo spesso è straziante. Ho sempre pianto l'ultimo giorno di lezione, all'idea di dover lasciare i miei ragazzi senza avere la certezza di poterli ritrovare l'anno successivo.
Da settembre ho preso servizio al "Calamandrei" di Crescentino; una scuola che per me è una seconda casa, dove mio padre insegna da moltissimi anni e dove io, da bambina, facevo i compiti al pomeriggio, quando papà aveva i consigli di classi o gli scrutini. Ne sono contenta e ho intenzione di godermi questa esperienza fino in fondo. Del resto, per consolarmi e stemperare un po' la malinconia, ho imparato a concepire me stessa nell'ambito di questa professione come una specie di Mary Poppins post litteram: vado dove c'è bisogno di me, senza voltarmi troppo indietro. Un paio d'anni al "Mercurino" di Gattinara, uno al "Calamandrei", un altro al "Mercurino" (con una puntata alla sezione maschile del carcere di Vercelli - esperienza meravigliosa, da ripetere il prima possibile!) e poi di nuovo il ritorno al "Calamadrei". E... chissà il prossimo anno dove sarò!

Oggi pomeriggio, però, voglio essere un po' nostalgica e ricordare il grande spettacolo Geometri's Got Talent, organizzato insieme ai miei alunni e agli amici e colleghi di una vita. Questo il video... di una giornata in cui abbiamo sgobbato, faticato, riso e pianto al tempo stesso...

(E sì, al minuto 00:49 ci sono pure io, chiamata fuori da dietro le quinte a tradimento! Oooopss!)

venerdì 8 settembre 2017

N come naturalezza

Dal dizionario italiano
NATURALEZZA: l'essere conforme alla natura e al vero


In questi giorni riflettevo sul fatto di non aver gestito al meglio questo mio spazio virtuale. Non che sia fondamentale; ma di certo il mio atteggiamento verso questo piccolo blog è stato lo stesso che ho avuto nei confronti dell'agito di numerose persone e di tante situazioni negli ultimi due anni. Mi sono camuffata, celata, trincerata anche laddove non era il caso di farlo.
Poiché se la "naturalezza" equivale all'essere conforme alla natura e al vero, allora non vi è nulla a questo mondo (nemmeno il mio atteggiamento schivo) che possa cambiare lo stato delle cose - la realtà del mio Amore, delle mie scelte, della mia attuale esistenza. E dunque tanto vale viversele, queste emozioni meravigliose, che nascono nell'anima e fanno crescere cuore e cervello all'unisono.
Senza ostentazione, certo.
Ma senza più sciocchi travestimenti inutili.
Attraverso la naturalezza, raggiungiamo e alimentiamo il Vero. (E poi il perdono?)
«Se nutriamo il nostro demone con rabbia e frustrazione, continuerà a darci fastidio, se lo nutriamo con amore e compassione evolverà. Amando il demone, si dissolve. La tensione è nel dualismo e mandare via i demoni caisa maggiori sofferenze... Con il tempo, con amore e compassione i demoni evolveranno e saranno liberati» (Tsultrim Allione).

giovedì 22 giugno 2017

L'arte di essere fragili

Povero il mio blog, abbandonato dalla fine della famigerata ultima tranche del secondo quadrimestre fino ad oggi! Ho accumulato una quantità di post, idee e recensioni da far spavento!
Ora che finalmente sono in ferie (e in disoccupazione, da buona insegnante precaria quale sono...) cercherò di recuperare terreno.

Inizierò oggi, con la recensione di un libro di cui ho portato a termine la lettura il mese scorso: L'arte di essere fragili, di Alessandro D'Avenia.
Premetto che, non amando le "mode letterarie", non ho letto nessuno dei titoli di D'Avenia che vanno per la maggiore (su tutti Bianca come il latte, rossa come il sangue, che pure sembra essere piaciuto molto ad alcuni miei studenti). A quest'ultimo L'arte di essere fragili mi sono avvicinata proprio perché tratta di Giacomo Leopardi, visto e considerato dalla prospettiva di un giovane docente di materie letterarie.
Leopardi, si sa, è un autore difficile da insegnare: universalmente banalizzato, è noto agli studenti come "lo sfigato", "il gobbo", quello che si è rovinato la vista a forza di studiare («Non fatevi prendere dall'ansia» commento in genere a quel punto, «a voi non succederà di certo...») e che non aveva fortuna con le donne. Povero Giacomo, anche lui vittima dei luoghi comuni.
Il grande vantaggio dell'opera di D'Avenia, dunque, è di ripercorrere tutte le tappe della vita del poeta recanatese (il volume è suddiviso in quattro parti: l'adolescenza - o l'arte di sperare; la maturità - o l'arte di morire; la riparazione - o l'arte di essere fragili; morire - o l'arte di rinascere) proprio allo scopo di riabilitarne la grandezza agli occhi dei più giovani. Alcuni spunti (sebbene non particolarmente originali) sono lodevoli, se non altro per il tono diretto adottato da D'Avenia. Il libro, infatti, non è un saggio su Leopardi, ma un insieme di lettere che l'autore scrive al suo poeta prediletto, creando un ponte fra presente e passato, fra poesia e quotidianità.
D'Avenia ci presenta Leopardi come l'autore della malinconia (ma la malinconia altro non sarebbe se non «la porta chiusa verso la stanza dove dorme il divino in noi»), ma anche come colui che ha saputo «trasformare in canto il dolore della vita» e l'inadeguatezza stessa dell'essere umano. Altro che sconfitto dall'esistenza: ci vuole coraggio e un occhio attento alla Bellezza, per trasformare le proprie cadute e i propri fallimenti in un superamento continuo del limite impostoci, in una vera e propria "poesia della consapevolezza".
In questo senso, ho apprezzato il libro di D'Avenia. La prospettiva attraverso cui egli considera l'opera leopardiana non sarà forse particolarmente originale (come ho già accennato), ma è in ogni caso accattivante, ben esposta attraverso una prosa che sa coinvolgere e far riflettere.
Ho apprezzato meno, invece, alcune sterzate in chiave "mélo", in cui D'Avenia si propone come giovane professore modello (ovviamente di liceo!), coraggioso e pioniere, che dispensa ai propri studenti consigli, libri e lettere all'ombra degli alberi. Un'immagine edulcorata della scuola e del rapporto insegnante-alunno, che poco mi appartiene e in cui (io, che ho fatto la mia gavetta nei professionali e che dunque ho conosciuto realtà ben più difficili da gestire!) fatico a rispecchiarmi.
Un'opera che presenta spunti interessanti, insomma, questa "arte della fragilità" di Alessandro D'Avenia; ma a cui male non avrebbe fatto una spolverata di sense of humor in più. Credo che perfino Leopardi l'avrebbe gradita.

A. D'Avenia
L'arte di essere fragili
Mondadori
P. 209

lunedì 3 aprile 2017

Elle

(Attenzione: il seguente post può contenere spoiler!)

Elle
, di Paul Verhoeven, con Isabelle Huppert, è un film doloroso ma vitale, che si apre con la terribile scena dello stupro della protagonista sotto lo sguardo enigmatico e ronfante del gatto di casa.
In verità, la violenza sessuale che Michelle (ricca e affermata proprietaria di una società che produce videogiochi) è costretta a subire non è che l'atto finale di una serie di soprusi di cui la donna appare più o meno consapevole.
Figlia di uno psicopatico (autore della "strage di Nantes", avvenuta nel 1980, quando Michelle era appena una bambina) e di Irène, un'ex infermiera eccentrica, che cerca di dimenticare il passato collezionando giovani amanti, la protagonista ha avuto un'infanzia e un'adolescenza difficili: la stampa e i mass media per anni l'hanno accusata di essere complice del padre nella sua mattanza. Ecco che dunque il tempa della colpa si affaccia prepotentemente nella vicenda: una colpa primigenia, atavica, un "peccato originale" su cui Michelle sembra non avere nessun controllo e che è strettamente ancorato al passato.
Michelle appare come una donna spigolosa, fredda, a tratti quasi calcolatrice, sfrenata in ambito sessuale; ma, in realtà, è una prigioniera. L'orrore della sua infanzia è sempre dietro l'angolo (come rivela la scena in cui una sconosciuta, in una brasserie, le rovescia addosso il contenuto del suo piatto, maledicendola insieme al padre). E, se non ci si libera del passato, diventa impossibile mutare anche il presente. Nonostante infatti la sicumera ostentata, Michelle è sempre e comunque prigioniera: di un figlio immaturo; di un ex marito che una volta l'ha picchiata; di un amante ipocrita, che è sposato con la sua migliore amica; del rapporto con un padre che non ha mai dato spiegazioni del suo folle gesto. E, per finire (last but not least) del misterioso stupratore dal volto mascherato - che si scoprirà poi essere Patrick, il vicino di casa, con cui Michelle intreccerà una morbosa relazione.
Non a caso la "liberazione" della protagonista inizierà solo dopo il suicidio del padre in carcere (che si impiccherà per non doverla incontrare) e dopo la morte di Irène, colpita da aneurisma dopo aver annunciato il suo prossimo matrimonio con il gigolò di turno. 
Elle non è il classico film incentrato sulla vicenda di una donna che si "vendica" di uno stupro subìto (come purtroppo sembra evincersi da alcuni siti che si occupano di recensioni cinematografiche). Anzi, la violenza non solo si verifica in un contesto sessuale (quello di Michelle) già di per sé spregiudicato, ma è solo - come ho accennato fin dall'inizio di questo articolo - la punta dell'iceberg, l'inizio di un percorso interiore di presa di coscienza.
A farla da padrone è l'elemento femmile: le donne di Elle non sono perfette, ma sono - ciascuna a suo modo - delle combattenti. Fanno invece una ben più magra figura gli uomini, violenti in quanto irrisolti, incapaci di sopravvivere senza agganciarsi in qualche modo (o attraverso il sopruso o tramite la dipendenza - economica, affettiva, sessuale) alle donne che li circondano.
Una pellicola senza dubbio originale, curata e bella benché sofferta, tormentata, che ci guida - sassolino dopo sassolino - attraverso la ricostruzione di un personaggio femminile complesso (interpretato da una superba Isabelle Huppert) e che ci costringe (forse, a tratti, nostro malgrado) a riflettere su ciò che è contenuto nelle pieghe più recondite del nostro animo.

sabato 1 aprile 2017

Combattenti esausti - Parte prima

#nonunadimeno
Esperienze scolastiche a proposito della "sub-cultura" della violenza


Sono anni (precisamente dall'assassinio di Silvia Caramazza) che lavoro con i miei alunni per arginare il diffondersi della "cultura della violenza" ed è inutile dire che i più recenti fatti di cronaca (non solo i femminicidi di Borgo Vercelli e di Pinerolo, ma anche la terribile mattanza di Alatri, ai danni del giovanissimo Emanuele Morganti) hanno provocato in classe accesi dibattiti e discussioni. Ci si indigna e al tempo stesso si cerca di capire.
I ragazzi mi raccontano che risse e violenze sono molto frequenti nei locali notturni. Mi raccontano di pestaggi a cui hanno assistito, di giovani colpiti con furia disumana solo per un'occhiata di traverso, di corpi esanimi oltraggiati con sputi e calci. Di violenze che solo per un soffio, per una fortuita fatalità, non si sono trasformate in tragedia. Mi riferiscono di come gli amici della vittima di turno spesso intervengano per aiutarla, per proteggerla (e - da notare - spesso si tratta di "compagnie" eterogenee, composte da adolescenti italiani, marocchini, albanesi, rumeni... con buona pace di quei giornalisti che vanno sempre alla caccia della "rissa fra bande di etnie diverse") e sono sì increduli di fronte a tanta brutalità - ma non quanto ci aspetteremmo.
Non è vero che tutti i giovani di oggi siano teppistelli alla ricerca della facile trasgressione. Anche questo è un luogo comune che chi lavora quotidianamente come insegnante o educatore sa essere del tutto fasullo. Esistono molti "bravi ragazzi" (come lo erano Emanuele e i suoi amici); ragazzi che ripudiano la violenza e che ricercano (non senza difficoltà) rapporti umani sinceri, che possano aiutarli a contrastare il solipsismo della società iper-tecnologica in cui si sono trovati a vivere. Ragazzi con cui fa piacere parlare e che spesso, durante le lezioni, riescono a strapparti il sorriso. Adolescenti a cui risulta impossibile non affezionarsi. Ragazzi sensibili - eppure rassegnati.
Immagine da Pinterest
La rassegnazione alla violenza e ai comportamenti stereotipati: ecco qual è il vero cancro della nostra modernità.
Prima ancora dei fatti di sangue, delle analisi sociologiche che ne conseguono, ciò che colpisce è l'incapacità delle giovani generazioni di comprendere che i modelli comportamentali diffusi potrebbero essere arginati o modificati da una presa di coscienza collettiva.
I giovani di oggi sono combattenti esausti - e lo sono perché noi adulti abbiamo insegnato loro (con il nostro esempio) che, dopotutto, non vale la pena di lottare per ciò che è socialmente diffuso e accettato - sebbene discutibile.
Abbiamo insegnato ai nostri figli e ai nostri alunni a essere "tiepidi", mentalmente immobili: non li abbiamo stimolati a sviluppare la capacità di analisi, non li abbiamo abituati a ragionare autonomamente sulla base di dati raccolti. Al contrario - attraverso la nostra colpevole accidia - li abbiamo istruiti ad adattarsi, a non andare mai contro "il sistema". Resta nascosto nella tua nicchia e non ti accadrà nulla di male. Mamma e papà ti proteggeranno sempre. Non badare al Male, il Male non esiste... Ecco la litania che ripetiamo loro fin da quando sono piccoli.
Ma il Male esiste - e va affrontato, e combattuto, con le armi dell'intelligenza, della capacità analitica, dell'empatia. Tutte pratiche a cui i nostri "figli" non sono avvezzi. Ecco perché i nostri "bravi ragazzi" rischiano (e lo rischieranno sempre più di frequente) di diventare pecore sacrificali.

• Continua •

mercoledì 22 marzo 2017

The cats will know

Ciò che i principali detrattori rimproverano al movimento animalista (o, per meglio dire, antispecista) è di occuparsi di inezie. «Con tutti i problemi che ci sono al mondo», si dice, non di rado con una certa acrimonia, «voi andate a preoccuparvi del benessere e dei diritti degli animali. Ma non vi vergognate?»
No, non ce ne vergogniamo affatto. Anzi, ne andiamo fieri, giacché noi indefessi salvatori di cani, gatti, caprette e maialini siamo tra i pochi (ma siamo davvero così pochi?) ad aver compreso che la Natura è un unicum, un ciclo perpetuo di connessioni che racchiude tutte le sue creature in un flusso costante di energia - flusso che non è mai unidirezionale, ma che è scambio, reciprocità, unione dei contrari.
La maggior parte delle persone è troppo presa dalle magagne del quotidiano, per accorgersi di quanto sia prepotentemente VIVA l'energia della Natura. «Ci si preoccupa di più di portare vestiti alla moda, o per lo meno puliti e senza toppe, che d'essere a posto con la coscienza» scriveva H.D. Thoreau in Walden.
Vi sono perfino coloro che si riempiono la bocca di discorsi sulla spiritualità e sul rapporto Uomo/Natura per poi avvelenare o bastonare il gatto che si permette di scavare nel loro "trendissimo" orto biologico - o che condividono articoli e link intelligenti spinti più dal fremito del proprio pollice che dall'anelito del cuore.
In effetti, a ben vedere, il panorama della com-passione umana non è tra i più edificanti.
Ma non va sempre così.
Ashes e Snow, di © G. Colbert (2005)
Sabato pomeriggio, ad esempio, ci è capitato un fatto grazioso. Stavamo per pranzare quando la nostra vicina di casa viene a suonarci il campanello: «Eloisa, aiuto, c'è un gattino imprigionato nel tombino di scolo davanti alle nostre case!». Oddio... e che si fa? Povera creatura! Chiamiamo subito i Vigili del Fuoco, che accorrono in men che non si dica. Riflettiamo sul da farsi e siamo tutti in fibrillazione: il mio compagno e io, le nostre meravigliose vicine di casa, i vigili. Più di tutti, il povero micetto, che continuava a miagolare disperato e tentava invano di aggrapparsi con le zampette alla griglia del tombino per uscire.
Alla fine i pompieri riescono a bloccarlo con un laccio intorno al collo (per impedirgli di fuggire attraverso le condotte e rendere vano il nostro lavoro) e il piccolo viene estratto dal buco: stremato (nel trasportino quasi non si reggeva in piedi), affamato e con qualche escoriazione sul muso, ma salvo!
Lo portiamo subito alla clinica veterinaria della nostra città e prendiamo accordi con il gattile. Il piccolo verrà curato, reidratato e infine si cercherà per lui una famiglia amorevole.
Una storia come tante? Un semplice "happy end", che non muoverà nulla nell'economia dell'Universo?
A me piace pensarla diversamente.
Credo che ogni singolo atto di compassione (sia nei confronti dei nostri simili, il cui linguaggio è per noi facile da comprendere; sia verso quelle creature che non comunicano attraverso le parole e la cui sofferenza può essere perciò percepita solo attraverso la dote dell'empatia) sia in grado di muovere energie sottili, ma forti e ben radicate nel tessuto del Cosmo. Energie che abbiamo dimenticato (presi come siamo nella corsa sfrenata all'individualismo e all'affermazione di noi stessi), ma che in realtà sono alla base del dipanarsi della Vita. Poiché noi siamo (o dovremmo essere) ben altro, oltre ai nostri impegni quotidiani, alle nostre idiosincrasie, agli incontri mondani e lavorativi. Dovremmo tornare ad essere umani - e dunque capaci di Amore e di sympatheia. Dovremmo tornare nel grembo di quella Natura da cui ci siamo allontanati per inseguire sogni di gloria, brame di possesso - e l'innegabile dipendenza da una tecnologia asettica, crudele, castrante.
Per questo ogni occasione non è casuale - e ogni nostra risposta alle sollecitazioni che ci vengono proposte dal destino determinerà combinazioni diverse.
Perché quel povero micetto ha continuato a fissarci e a miagolare per più di tre quarti d'ora, mentre attendevamo i soccorsi? Perché non è tornato indietro nella conduttura di scolo, perché non ha cercato altrove la sua salvezza? Perché proprio da noi, che cercavamo di blandirlo, parlando una lingua a lui sconosciuta? Che cosa ha spinto un animale selvatico e randagio a fidarsi di noi (un gruppo di sei donne e un uomo) e della nostra volontà di porre fine alla sua sofferenza?
E per quale motivo, dopo questa piccola esperienza, noi tutti abbiamo continuato a parlarne, ogni volta che ci siamo incontrati per strada, sorridendoci e salutandoci forse con un calore nuovo, con una felicità sopita e riscoperta?
Non è tutto casuale, perché la libertà di scelta è da sempre nelle nostre mani. Possiamo scegliere se voltarci dall'altra parte di fronte a una richiesta di aiuto - da qualunque direzione essa provenga. Oppure possiamo decidere di tirarci su le maniche e affondare le braccia fino ai gomiti nella corrente calda e impetuosa che muove la Natura, il Cosmo e tutta la nostra Vita.

mercoledì 15 marzo 2017

Antonio Manzini: "7-7-2007" e "Orfani bianchi"

Quando si dice il caso (ma il caso sappiamo che non esiste): Antonio Manzini mi è stato dapprima caldamente raccomandato da mia cugina Lidia (accanita e saggia lettrice)... e poi ecco che, puntuale, per Natale mia madre mi regala 7-7-2007, l'ultimo capitolo dei romanzi incentrati sul personaggio di Rocco Schiavone. Partire dal fondo, dalla fine di una vita, può essere un buon modo per innamorarsi - seppure con calma, senza fretta, come potrebbe accadere in una torrida estate romana.
In effetti il mio amore per la scrittura senza fronzoli di Manzini non è divampato fin da subito: per quanto riguarda il genere "giallo", non nego di essere smaccatamente esterofila - e l'ambientazione romana (e afosa) di 7-7-2007 non mi ha coinvolta nell'immediato.
Ma Manzini è un narratore sapiente e, con la stessa flemma (complice, forse, il grande caldo?) del suo protagonista, poco alla volta arricchisce la sua storia di particolari, descrizioni, tic e manie dei personaggi - oltre a momenti di pura bellezza visiva e narrativa: come la scena in cui Guido e Anna Livolsi, genitori di una delle giovani vittime, accolgono Schiavone nel loro soggiorno, dopo la morte del figlio, e sono «avvinghiati come due naufraghi ad uno scoglio in mezzo all'oceano in tempesta». O come l'episodio in cui la moglie di Rocco, Marina, utilizza il pretesto dell'affresco del miracolo di San Clemente per parlare del proprio matrimonio in crisi: «Sono quasi mille anni che quest'affresco è qui sopra. Mille anni sono tanti. Ora uno se lo potrebbe dimenticare e dare una bella mano di bianco, oppure ripararlo e cercare di farlo durare per altri mille anni. Perché due coglioni come me e te lo possano guardare, un giorno, e pensare alla loro vita, a ciò che è giusto, a ciò che è sbagliato...».
E così, scena dopo scena, particolare dopo particolare, ci si accorge che Manzini sa descrivere e (re)suscitare il dolore. Un dolore che non sempre ha senso e che muove sotterraneo nelle nostre viscere.
Non ci si dimentica facilmente di questo romanzo, della sofferenza acuta che scaturisce dalle sue pagine e che va a comporre il quadro finale. Un quadro ineluttabile, che ci lascia con l'amaro in bocca, ma anche con un senso indelebile di compiutezza.
Forse sarà stato proprio per questi motivi che, subito dopo 7-7-2007, ho iniziato la lettura di un altro romanzo di Manzini, Orfani bianchi (anche questo un regalo!).
Con questo romanzo dell'ottobre 2016, l'autore si cimenta con la descrizione di un personaggio femminile: quello di Mirta, una quarantenne moldava madre dell'undicenne Ilie (una presenza silenziosa e quasi onirica durante tutto il corso della narrazione, ma che "esploderà" drammaticamente, con tutta la sua paradossale sete di vita, nel terribile finale), giunta in Italia per racimolare denaro da spedire alla famiglia.
Mirta è delicata tanto quanto Rocco è ruvido e impenitente - ma ha una forza da guerriera: immersa in un contesto quotidiano di degrado, povertà e cinismo (più volte vittima di una società italiana razzista e dimentica dei valori umani fondamentali), Mirta lotta ogni giorno, prendendosi cura di anziani bizzosi e di famiglie disgregate, lavorando come badante e inseguendo un unico sogno: poter portare il piccolo Ilie (che è stata costretta a lasciare in un "internat", un orfanotrofio) con sé in Italia, a Roma.
Anche in questo caso lo stile di Manzini è rapido, conciso, potrei dire (e non a caso!) "cinematografico": attraverso descrizioni impietose (i dispetti fatti dalla signora Eleonora alla povera Mirta; il tragitto compiuto ogni mattina dalla protagonista per recarsi al lavoro, su mezzi pubblici sporchi, maleodoranti e sovraffollati; la tristezza del villaggio moldavo a cui Mirta fa ritorno una sola volta, dopo la morte della madre...), a cui si affianca la velocità sgrammaticata di sms e mail che la protagonista scambia col figlio, col parroco del suo paese natale, con la direttrice dell'internat e con Nina, l'amica del cuore, lo scrittore ci conduce quasi di corsa, a perdifiato, verso la risolutiva scena finale, che è un affresco perfetto, un fotogramma lapidario, l'unica conclusione possibile per il film della taciturna Mirta.

(La mia recensione sui romanzi di A. Manzini anche su Phaneron.)

A. Manzini
7-7-2007
Sellerio editore
P. 369

A. Manzini
Orfani bianchi
Chiarelettere

P. 240

venerdì 6 gennaio 2017

Il cerchio si chiude... e si apre

Anche quest'anno il "Cammino" intrapreso a partire da Natale si è concluso.
Non l'ho mai sentito con così tanta forza come durante le ultime notti: avrò parecchio da scribacchiare sui miei quaderni!
In particolar modo mi sono resa conto di quanto sia inutile qualsiasi percorso spirituale, se compiuto per ottenere risposte ego-centriche: Devo capire perché mi è successo questo... Devo conoscere il significato del mio sogno... Motivazioni come queste possono essere un valido punto di partenza; ma, se diventano il fine ultimo del viaggio, allora ne invalideranno ogni possibile progresso.
Nuova pagina, nuovo inizio...
Il nostro itinerario attraverso l'oscurità (vedi i precedenti post sull'importanza del sonno e del sogno) ci porta - certo - al centro del nostro io; ma, se affrontiamo la Morte, è solo per rinascere. L'Alpha e l'Omega si (ri)congiungono per tornare a generare la Vita: cosa che, si sa, è impossibile se ci si pietrifica in una dimensione rivolta unicamente al nostro "ego".
Attraverso lo sviluppo della discrezione, la ricerca del coraggio e della verità, la ricerca della pazienza e dell'equilibrio, trasferiamo la nostra attenzione dall'hic et nunc personale (i nostri guai, le nostre traversie - che, per quanto gravi siano, attengono sempre e comunque alla sfera dell'individuo) a ciò che è "altro" da noi: accorgendoci degli altri, impariamo a dischiudere uno spiraglio importante che, passo dopo passo, ci porterà ad entrare in comunione con il Tutto, con la Natura e con la componente divina di essa.
In questo modo, il cerchio si chiude nella discesa, nel ricongiungimento della Fine e dell'Inizio - per terminare con l'apertura e con la com-prensione. In effetti il fuoco, con cui siamo soliti far terminare queste notti e queste giornate, non solo brucia il vecchio, ma al contempo purifica e genera nuova Vita.

Weyward

Tre generazioni di donne, le Weyward, che, dal XVII secolo ad oggi, sono unite da un unico misterioso destino. Il romanzo d'esordio dell...