martedì 16 gennaio 2024

Weyward

Tre generazioni di donne, le Weyward, che, dal XVII secolo ad oggi, sono unite da un unico misterioso destino.

Il romanzo d'esordio della scrittrice anglo-australiana Emilia Hart prende avvio con la storia di Altha, processata per stregoneria nel 1619 e infine assolta. Ritornata a casa, nel suo cottage di Crows Beck, inizia a scrivere la sua storia, in cui l'amore per le erbe e la natura, trasmessole dalla madre, si mescola all'affetto profondo che la lega a Grace, sua amica d'infanzia, sposata con un uomo violento e brutale.
Il manoscritto attraversa i secoli, ben custodito in un vecchio scrittoio che la linea femminile della famiglia Weyward si tramanda di generazione in generazione, e viene letto, durante la Seconda guerra mondiale, dall'irrequieta sedicenne Violet, oppressa da un padre padrone che inibisce la sua naturale passione per gli insetti - fino ad arrivare, ai giorni nostri, alla timida e impacciata Kate, timorosa di tutto, che ogni giorno viene malmenata e violentata dal compagno Simon.

Non sono riuscita a trovare i
crediti di questa immagine, che
però mi ricorda molto
Violet...
Una storia appassionante, con elementi magici e numerosi colpi di scena, che tiene avvinto il lettore fino all'ultima pagina attraverso una scrittura semplice e al tempo stesso evocativa, che riesce a descrivere con ispirata precisione i caratteri dei personaggi e gli ambienti in cui si muovono. Molto suggestive, ad esempio, sono le descrizioni della natura incontaminata della Cumbria (la regione del Nord-ovest dell'Inghilterra in cui l'autrice ha trascorso il periodo della quarantena durante il Covid) e del rigoglioso giardino che circonda il cottage delle Weyward. 

Il tema della magia si configura in quest'opera come legame inscindibile tra il Femminile e la Natura: una forza che è stata calpestata, dimenticata e rinnegata nel corso dei secoli, ma che continua a far parte del corpo e dell'anima delle donne. Come ha detto l'autrice, intervenuta lo scorso settembre nella rassegna "Pordenonelegge": «C'è un parallelo tra la natura selvaggia che non è mai stata compresa fino in fondo e il corpo femminile che tanti uomini vedono ancora come una sorta di minaccia. È difficile crescere, essere una giovane donna. Quando sei piccola vivi in una sorta di bolla, poi cominci a pensare che ormai il femminismo ha fatto il suo corso, che non ne abbiamo più bisogno. Man mano che cresci ti vedi circondata da abusi da parte degli uomini, dall'aumento della violenza domestica, da discriminazioni e stupri che non sfociano in un equo processo ed è molto sconfortante. Sono giunta alla conclusione che dobbiamo assolutamente proseguire con il femminismo. Ne abbiamo ancora bisogno. Ho scritto questo romanzo proprio pensando a questo».

Per chi è adatto questo libro:
• per chi si interessa di spiritualità femminile;
• per chi ama le storie che coinvolgono più generazioni;
• per tutti coloro che amano le storie di streghe ambientate nella cara vecchia Inghilterra.

Buona lettura! :) ♥

giovedì 23 novembre 2023

... chissà se riuscirò a proteggerti


© Cameron Le Siege
Alla mia adorata figlia femmina, la vigilia del 25 novembre 2023 - Giornata internazionale contro la violenza sulle donne.

Sono tua madre.
Ti ho portata in grembo per sette mesi. Di più non sono riuscita.
Quando hai deciso di nascere, lo hai fatto con la tua testardaggine d'ariete, guizzando fuori come un pesce, gridando a pieni polmoni il tuo arrivo, la tua voglia di essere qui, in questa vita.

Sono tua madre.
Sei nel mio sangue.
Col tuo primo singhiozzo mi hai rimessa al mondo.
Ho scoperto di possedere una calda forza silenziosa, capace di muovere le montagne del mio dolore.
Mi hai guardata con piccoli occhi di salamandra e io non sono più stata la stessa.

Sono tua madre.
Grandi artigli e occhi di fuoco, per difenderti. La musica del vento e il canto antico delle montagne. Il nido dell'acquila, la tana della volpe, il fruscìo del bosco. Ogni giorno cambio ritmo e voce, per adattarmi al mutare della tua danza che cresce. Per te e solo per te.

Sono tua madre.
E lo sarò per sempre, anche oltre la fine di questa esistenza.
Eppure chissà se riuscirò a proteggerti da chi vorrà fiaccare la tua volontà e farti a pezzi per poi ricostruirti - a modo suo.
Chissà se potrò tenere lontani da te i lividi e le ferite peggiori - quelli che ti strappano la vita e la gettano in un crepaccio, sul letto di un fiume o in un'auto in fiamme.

Sono tua madre.
E tu sei la mia adorata figlia femmina.
Eppure chissà se potrò continuare a proteggerti.

Dicono che i figli imparino dal nostro esempio e non dalle nostre parole.
Così sono forte.
Forte - senza possibilità di scelta.
Non mi guardo mai indietro.
Non smetto di camminare.
Ti insegno a non tacere, a non abbassare lo sguardo, a non cercare l'approvazione degli altri - nemmeno la mia.
Ti ripeto che sei degna d'amore per ciò che sei e non per come ti comporterai. Che l'amore non umilia, non pretende, non s'impone.
E non mi faccio umiliare e non ascolto più i giudizi altrui.
Parlo a bassa voce, ma la mia voce non trema.
Cammino adagio, ma il mio passo è fermo.

Chissà se basterà.

Sono tua madre.
Ma non so se saprò proteggerti da quegli uomini (e sono tanti) convinti che le donne si possano possedere, stuprare, inseguire, picchiare, mettere a tacere e annientare - per sempre.

Ed è questo ciò che più mi spaventa, tesoro mio.
Che non temo più per la mia vita, ma per la tua.

Eppure questo non significa che l'abbiano avuta vinta loro.
No.

Sono tua madre.
E lo sarò per sempre.
Qualsiasi cosa ci accada.


♪ Scritta ascoltando: Nouela - The Sound of Silence.
Sempre rivolgendo un pensiero speciale a Silvia, le cui parole restano sempre vive in me.

lunedì 6 novembre 2023

Le streghe di Manningtree

Un gruppo di donne indomite e bislacche, accusate di stregoneria. Una comunità bigotta e messa a dura prova dalla guerra civile inglese. E infine un uomo, esaltato nella propria fede, che vuole ricercare il male a tutti i costi.
Sono gli ingredienti principali del bellissimo romanzo d'esordio di A.K. Blakemore.



Le streghe di Manningtree
, edito in Italia da Fazi, è il coinvolgente romanzo di esordio della scrittrice A.K. Blakemore.
Ambientato in Inghilterra nel XVII secolo, ai tempi degli scontri fra parlamentaristi e l'esercito di Carlo I, racconta della caccia alle streghe nell'Essex, ad opera dell'"inquisitore generale" Matthew Hopkins e del suo aiutante John Stearne. Il numero delle vittime pare sia stato molto alto: alcuni storici ipotizzano che vi siano state addirittura trecento condanne a morte. John Stearne, autore del volume, edito nel 1648, Conferma e scoperta della stregoneria, parla di circa duecento donne catturate e uccise.
La Blakemore, basandosi sui verbali dei processi, ricostruisce la vicenda umana e giudiziaria della giovane Rebecca West e del gruppo di donne indomite e bislacche accusate di stregoneria nel villaggio di Manningtree, sulle rive dello Stour. Tra esse, non solo la stessa Rebecca, ma anche la madre di quest'ultima, Anne Beldam West, donna fiera e imponente, dalla lingua tagliente, conosciuta in paese per essere una grande bevitrice e un'instancabile masticatrice di tabacco. Oltre che per il fatto che tutti quelli che le fanno un torto in genere vanno incontro a una brutta fine.
L'autrice, attraverso un climax sapiente, ricostruisce il contesto storico e sociale dell'epoca, mostrandoci le ripercussioni degli avvenimenti storici sulla vita quotidiana delle persone di Manningtree. La guerra civile che ha costretto molti uomini ad allontanarsi da casa; la povertà causata non solo dalla situazione politica del Paese, ma anche da un inverno gelido e impietoso; le malattie (soprattutto infantili) causate dalla miseria; le nevrosi di una società puritana e bigotta, che spesso trovano sfogo attraverso forme di apparente possessione demoniaca... Tutto concorre a far sì che si debba per forza trovare un capro espiatorio. E questo è rappresentato dalla Beldam West, Liz Godwin, Margaret Moone, Anne Leech e la vecchia madre Clarke. «Tutte insieme, un branco di squinternate», come le definisce Rebecca verso la fine del romanzo, che riescono a sopravvivere alla solitudine e alla miseria grazie all'istinto di una solidarietà femminile spiccia, senza fronzoli né moine.
Una delle scene a mio avviso più belle del romanzo è quella in cui Rebecca e la Beldam West portano a casa propria madre Clarke, che è stata malmenata dallo yeoman Richar Miller mentre lo stava implorando di regalarle qualcosa da mangiare. Impiegano un'ora per trasportarla dalla proprietà dei Miller al loro piccolo cottage, dato che «i Miller l'hanno lasciata lì, nella neve, come una bestia. [...] Mia madre prende le mani fiacche e sudicie della vecchia tra le sue e le strofina con vigore, prima la sinistra e poi la destra. Prova a versare un cucchiaio di porridge annacquato nella sua bocca allentata e inerte. Io assisto dalla porta e mi stupisco di mia madre, della tenerezza con cui si prende cura della vicina, di quella donna eccentrica, di quella nullità, di quella reietta quasi senza amici. Sembrerà assurdo, ma mi fa pensare a Maria Maddalena, la Maria Maddalena che asciugò i piedi di nostro Signore Gesù Cristo con i suoi bellissimi capelli. E per un istante tutto mi è chiaro. Tutto ha senso. Ed è a Dio che mi riferisco. Non tanto il mostro borioso di cui il pastore Long è abituato a pontificare, quanto a ciò che chiamano lo Spirito: il calore trasmesso alle mani intirizzite di un'invalida, i baci dati per asciugare le lacrime, la carità, e cose simili».
Ed è proprio al termine di questa scena in cui la Beldam West si prende amorevolmente cura (con un'attenzione insolita per quella che è la sua indole) della reietta madre Clarke, cieca e storpia, che finalmente le due donne osano parlare di quello che sarà, a breve, il loro comune destino...

«Credono che madre Clarke sia una strega» parlo, infine. «E che anche tu lo sia e, probabilmente, anch'io. Hopkins e gli altri.»
Mia madre rivela un sorriso stanco e si toglie la cuffia dai capelli ingrigiti. «Strega», mormora. «Dai troppo ascolto ai pettegolezzi, coniglietto. "Strega" è l'offesa che affibiano a chiunque faccia succedere le cose, a chiunque porti avanti la storia. Uomini come Hopkins, o come quel broccolo di Richard Miller, pregano ogni giorno perché Dio punisca i loro nemici, o perché una bella fanciulla li degni di uno sguardo. E se dovesse succedere, lo considerano un miracolo, un prodigio, la dimostrazione della loro presenza tra i giusti. Quel che fa una "strega", mi pare, è il favore di dire quelle preghiere a voce alta, e in compagnia.»


È questa una definizione non da manuale - ma è una delle più belle che io abbia mai letto del concetto di "strega".

La scrittura di A.K. Blakemore è ricca, carica di suggestioni e al tempo stesso molto scorrevole. Coinvolge, seduce, spinge il lettore ad andare avanti, avvolgendolo nelle atmosfere dei luoghi (nella sua prosa, si respirano addirittura gli odori, di quella campagna fredda, fradicia di neve e di pioggia) e nella sapiente ricostruzione della psicologia dei diversi personaggi.
Uno dei libri più belli letti quest'anno, che ho iniziato a rivedere non appena giunta all'ultima pagina, con l'intento di annotarmi passaggi, riflessioni, parole...
Imperdibile per chiunque sia appassionato, al contempo, di narrativa e di storia della stregoneria.

Per chi è adatto questo libro:
• per chi, come me, è appassionato di storia della stregoneria;
• agli appassionati di romanzi storici;
• a chiunque stia cercando una storia al femminile, scritta con cura e attenzione per quanto riguarda la ricostruzione della psicologia dei personaggi.

Buona lettura! :) ♥

giovedì 12 ottobre 2023

Torno a parlare di streghe

Torno a parlare di streghe, questa volta a scuola, con un laboratorio che svilupperò in una classe quarta dell'indirizzo turistico del mio istituto.

Per organizzarlo, documentarmi e ricercare i materiali, ho impiegato buona parte dell'estate (tenendo conto dei miei tempi ridotti a causa di orto, bambini, cani, gatti e quant'altro...). Un lavorone che ho intitolato, in modo non troppo orginale, L'ora delle streghe. Migliorabile, certo, ma di cui sono soddisfatta.

Mescola approcci didattici differenti, dalla classica lezione frontale all'apprendimento cooperativo passando per la flipped classroom e i "giochi di ruolo" e prevede l'utilizzo di diversi materiali: stralci da romanzi e saggi di storia e antropologia, documentari e film - per un totale di 23 ore (16 di storia e 7 di italiano), distribuite lungo tutto il corso dell'anno scolastico.

Il laboratorio, infatti, tratterà lo sviluppo del tragico fenomeno della "caccia alle streghe" attraverso i secoli, dall'avvento dell'Inquisizione fino al secolo dei Lumi.

Lo scopo è, come sempre, di guidare i ragazzi nella conoscenza delle diverse epoche storiche ma, soprattutto, di aiutarli a ragionare in maniera autonoma e personale sui testi proposti e sugli eventi, prendendo posizione sulle grandi ingiustizie che, spesso, nel corso della storia dell'umanità, si sono perpetrare sotto l'egida della santità e del volere di Dio.

Ché ogni forza sta nella lingua, nella parola ben masticata nella testa, la sciura non lo sapeva? Naturalmente lei sta parlando della parola di preghiera, giusta e pesata, non del purparlé che fa solo schiuma di bocca.


(Da La valle delle donne lupo, di Laura Pariani)

giovedì 6 luglio 2023

ELP

Nonostante sia tra i miei autori preferiti, non ho mai recensito un libro di Antonio Manzini. Non so perché. Forse, con le sue parole, mi sento talmente "a casa" che non ho mai sentito il bisogno di doverlo precisare attraverso una recensione. Forse, invece, c'entra il fatto che Rocco Schiavone sia, in questa fase della mia vita, il mio personaggio-specchio - e, si sa, parlare delle nostre zone d'ombra non è mai facile.
Tuttavia, giunti a questo punto della storia del vicequestore Schiavone, credo che ELP meriti due righe di commento da parte mia. Non solo perché lo ritengo uno dei più belli e coinvolgenti scritti da Antonio Manzini finora, ma anche per la struttura "corale" di questa storia intricata, che tiene avvinto il lettore per più di cinquecento pagine. In questo capitolo, infatti, il vissuto e i pensieri di Rocco si intrecciano con quelli degli altri personaggi: Caterina e Sandra, che continuano ad alternarsi nella vita del vicequestore; il buffo D'Intino, alle prese con un'improbabile storia d'amore; Deruta e Casella, ormai entrambi felicemente accasati; la bella quanto eccentrica coppia formata da Alberto e Michela; Antonio Scipioni, sempre di più uomo di fiducia di Rocco nel corso delle indagini; e, non ultimo, l'Esercito di Liberazione del Pianeta (ELP), la cui diffusione in Valle d'Aosta e in tutta Italia viene descritta in queste pagine con un tale realismo da farci rimpiangere il fatto che una rete così ben organizzata di combattenti per i diritti del pianeta e degli animali non esista davvero.
Ci sono tanti spunti e tante voci, in questo romanzo. E questa pluralità fa da contraltare alla solitudine burbera e contrariata del protagonista. C'è sempre una nota di amarezza, nei romanzi di Rocco Schiavone, e questa è data dal dolore della perdita, dall'incapacità del nostro vicequestore di liberarsi del passato. Non sa vivere e non sa morire, Rocco. E forse non sa morire perché ancora conserva, dentro di sé, una scintilla di vita preziosa - quella di Marina. Fatto sta che resiste, coriaceo come le montagne che tanto disprezza e che, ciò nonostante, continuano a circondarlo, testimoni silenziosi della sua esistenza.
L'angolo della mia libreria dedicato ai romanzi
di Antonio Manzini, rallegrato dalle
illustrazioni di © Pepe Illustratore.
Però, in questo romanzo, nonostante tutte le sue (e nostre) reticenze, affiorano tanti spunti, simili a baluginii che si scorgono attraverso la trama di un tessuto liso. C'è ancora qualcosa o qualcuno per cui vale la pena procedere lungo il sentiero, affrontandone tutte le asperità. Ci sono personaggi come Carlo Artaz e l'esercito dell'ELP, che le montagne maestose della vallata di Cogne (la MIA Cogne!) proteggono all'interno del loro ventre; ci sono combattenti mai esausti come Lorella di Epinel; c'è il male che va smascherato con coraggio, senza accontentarsi di verità precostituite. E Rocco, tutto sommato, si lascia convincere: a prendere posizione (nonostante l'età, nonostante la stanchezza), a ricercare la felicità, che trapela per un istante, nel finale, nello sguardo che il vicequestore scambia in Africa con una leonessa, durante un viaggio con gli amici Furio e Brizio.
Si piange, si ride, si riflette, nell'ultimo romanzo di Rocco Schiavone. E ci sono passaggi (come quello sulla negazione del passato e delle responsabilità storiche, a pag. 515) dopo aver letto i quali avrei voluto abbracciare Antonio Manzini, per averli scritti.
Resto dunque in attesa del prossimo capitolo di questo lungo romanzo a puntate, certa che ci sarà ancora molto che Rocco dovrà imparare - e noi con lui, nel lungo cammino della vita. Cammino nel corso del quale, mi rincresce dirlo, non riescono ad avanzare di un solo passo i censori da quattro soldi e i fascistelli con smanie proibizioniste.

venerdì 18 febbraio 2022

All'inizio fu il buio e, nel buio, il dolore: riflessioni sul parto e sulla maternità


Oggi, parlando con una cara amica, riflettevo sul materno.
La figura della madre ha un ruolo fondamentale nello sviluppo dell'individuo.
Madri felici crescono bambini felici, per questo è fondamentale ribadire con tutta la nostra forza che cosa sia davvero la maternità: un cammino di consapevolezza.
Siamo maghe e anche un po' sciamane... e non ce lo ricordiamo!


Riflessioni sul parto e sulla maternità
Nonostante gli stereotipi sulla maternità (retaggio di una mentalità cattolica e patriarcale), mettere al mondo una creatura è un'esperienza di dolore deflagrante.
Internet, la televisione e la carta stampata ci inondano di immagini rassicuranti, ci mostrano madri sorridenti che addirittura partoriscono all'interno di un supermercato, come se si trattasse di un semplice incidente di percorso, nulla che un medico presente nella corsia surgelati e qualche confezione di cotone idrofilo non possano sistemare in quattro e quattr'otto. Vogliono convincerci che "venire al mondo" sia qualcosa di estremamente semplice, senza ripercussioni di natura animica o esistenziale. Si bada a pubblicizzare (e acquistare) prodotti all'avanguardia per il benessere fisico della mamma e del nascituro; ci si preoccupa di rispettare con il massimo scrupolo i protocolli ospedalieri; si parla (poco, in verità) di tecniche di respirazione e di allattamento; e, al contempo, si considera con un certo imbarazzo la depressione post partum, liquidandola con poche e rapide parole di circostanza ogni volta che si verifica qualche fatto increscioso - come si farebbe con un parente scomodo e impresentabile.
Non si ha il coraggio di affermare, ad alta voce e senza indugi, che il parto è un'esperienza di dolore priva di eguali e che la madre, proprio attraverso la sofferenza del corpo e della mente, ri-partorisce se stessa insieme al proprio bambino.
Il dolore del travaglio ci pone di fronte ad uno specchio impietoso. Non c'è tempo, non ci possono essere esitazioni. Dal momento in cui le contrazioni hanno inizio, veniamo trascinate lungo un cammino più o meno lungo, nel corso del quale non ci sono soste, non esiste la possibilità di concentrarsi su altro che non sia la realizzazione del "mettere al mondo".  Il bambino che per nove mesi abbiamo cullato e protetto nel nostro grembo, nel calore e nell'oscurità (come fa la terra con i suoi semi o con le creature che sprofondano nel letargo) viene sospinto nella realtà al di fuori dell'utero, indotto ad essere "altro" da noi. E ciò avviene con un dolore e un pathos tali da farci perdere la testa, nel vero senso dell'espressione. Durante il travaglio, cadono maschere e inibizioni: alcune donne piangono, implorano che il tormento finisca in fretta; altre tirano fuori rabbia e aggressività, lanciano insulti e improperi; altre ancora diventano forti come super eroine - e non sempre queste reazioni coincidono con ciò che siamo (o crediamo di essere) quotidianamente. La sofferenza scoperchia botole che credevamo di avere ben chiuso o di cui, in molti casi, neppure sospettavamo l'esistenza. Ci trasporta in una realtà "altra" ed ecco che, in qualche modo, anche noi madri vediamo la luce (una nuova luce) insieme a nostro figlio. L'esperienza dei dolori del parto è misterica, iniziatica e ci guida ad una nuova consapevolezza. E' l'inizio di ogni cosa e per questo possiede una simile forza tellurica. Va rispettata e assecondata - ma non temuta, proprio perché essa ha la capacità di introdurci a una nuova, importante fase della nostra vita.
Non solo: è proprio nella circostanza del parto e del dolore che ne consegue che la donna si ricongiunge e torna ad incarnare il Femminino archetipico e primordiale. Anche la donna contemporanea, che (mi duole scriverlo) è sempre più distante dalla sua reale natura, in quegli istanti sperimenta la potenza della Grande Madre che è insita in ognuna di noi. Proprio per questo si tratta di un'esperienza sconvolgente: di colpo ci troviamo di fronte a uno specchio e questo specchio ci mostra quale forza ancestrale sia annidata in noi. Non a caso, attraverso una sinergia perfetta tra madre e bambino, la pressione della testa del nascituro contro la cervice uterina stimola la produzione di ossitocina, l’ormone che regola il susseguirsi delle contrazioni e che sta alla base della creazione dei legami affettivi, sociali, familiari. Naomi Wolf definisce questo ormone la «superpotenza emotiva femminile », quella che fa sì che una donna si innamori perdutamente del proprio figlio e del proprio compagno, che sia in grado di creare legami forti e solidali e di leggere profondamente e in modo empatico le emozioni altrui. L’ossitocina, insomma, è l’ormone che ci permette di esprimere al meglio quelle potenzialità (slancio verso il prossimo, capacità di accogliere e di com-prendere) atte a creare una socialità sana (simile a quella che doveva esistere nelle antiche società matriarcali e che ancora oggi possiamo riscontrare in quelle sopravvissute) – ed è abbastanza sorprendente che la stimolazione del suo rilascio avvenga in una circostanza di così grande sofferenza come il parto. E’ sorprendente, ma al tempo stesso coerente con quello che è il traguardo finale dell’esperienza della partoriente: non solo riuscire a prendersi cura del proprio bambino nel migliore dei modi, ma, al tempo stesso, creare intorno ad esso e a se stessa una nuova rete relazionale. Il “nido” che accoglie mamma e bambino nel post partum non dovrebbe essere solo un’alcova fisica, ma anche un ambiente emotivamente e sentimentalmente sano. E questo passa in primis attraverso una nuova predisposizione d’animo della madre, attraverso l’acquisizione, da parte della donna, di nuove conoscenze non solo pratiche, ma anche animiche e spirituali e di una nuova consapevolezza. Ho scritto “dovrebbe” e il condizionale è – purtroppo – d’obbligo, poiché spesso, al giorno d’oggi, le cose vanno in maniera ben diversa: la desacralizzazione del momento del parto, l’annichilimento del Femminile in ogni suo aspetto e la perdita di autocoscienza delle donne stesse (che non conoscono più la propria storia e hanno dimenticato le proprie antenate) fanno sì che il rilascio di ossitocina non sia altro che una semplice reazione fisiologica, circoscritta al momento del parto e privata di qualsiasi riferimento simbolico ed esperienziale.
Al contrario, in Natura tutto è simbolo (in greco, questo verbo, symballo, significa “mettere insieme” – e dunque: “collegare”) e anche noi esseri umani, per quanto ormai dediti alla tecnologia e allo scientismo, non possiamo sottrarci a questa verità. Nulla di ciò che in Natura viene prodotto o sollecitato e che risulta ai nostri occhi manifesto possiede un’unica realtà materiale: ogni fenomeno, al contrario, può essere concepito sia dal punto di vista fenomenico sia dal punto di vista filosofico, esoterico, spirituale.
Se proviamo dunque a sollevare il velo e a ragionare utilizzando nuovi parametri (per quanto bizzarri essi possano apparire in una società pragmatica come la nostra), ci accorgeremo che le corrispondences  sacre sono tutto intorno a noi e dentro di noi.
Il cammino di discesa verso l’oscuro (attraverso la sofferenza) e di risalita verso la luce della (ri)nascita che compie la donna al momento del parto è un percorso di consapevolezza ed è lo stesso che compie la Grande Madre nella sua ciclicità.

venerdì 28 maggio 2021

La menta, erba buona

Ci sono profumi a cui siamo legati più che ad altri.
Io, ad esempio, riuscirei a riconoscere le mie montagne anche ad occhi chiusi, solo percependo l’odore selvatico e inconfondibile di aghi di pino, erba, timo e di sorgenti d’acqua ferrosa.
Un altro profumo che mi piace in modo particolare e che suscita in me una piacevole sensazione di ripulitura fisica e spirituale è quello della menta.
Fino a qualche tempo fa, non sapevo nulla, della menta. Sapevo solo che mi piaceva e che amavo tenerla nell’orto-giardino – a dispetto della sua esuberanza – per percepirne, a tradimento, le zaffate aromatiche, che s’involano nell’aria estiva ad ogni cambio di vento.
Chi si vantava di saperne più di me, mi guardava coltivare e ripulire la mia ampia aiuola di mentuccia con un misto di disapprovazione e compatimento: «Guarda che è un’erba infestante… Non te ne libererai più». Ma io sono sempre stata caparbia, nei miei amori e, anno dopo anno, la menta mi ha sempre accompagnata nella mia attività di “ortigiana”. Devo limitarne l’entusiasmo, certo; ma vengo ripagata con la fresca bellezza delle foglie smeraldine e con il lilla delicato delle infiorescenze estive.
Solo più avanti, leggiucchiando qua e là, ho capito per quale motivo mi piacesse tanto questa pianta robusta, che risorge impenitente ad ogni primavera. Nulla è casuale. Infatti la menta, in greco chiamata mìnthe o hedyosmos (“dal buon odore”) è fra le piante ctonie più care alla Grande Madre, tanto da essere utilizzata, nella Roma antica, per adornare la Corona Veneris che si metteva sul capo dei novelli sposi.
Il mito di metamorfosi che si racconta riguardo alla menta (ripulito da tutte le incrostazioni della cultura patriarcale, diffusasi in Grecia in epoca antica) è molto semplice: Mintha era una ninfa che Ade cercò di violentare e che fu salvata dall’intervento tempestivo di Persefone, che la trasformò nella profumatissima erba che tutti conosciamo. Non a caso, dopo l’avvento del cristianesimo, fu soprannominata Herba sanctae Mariae e collegata al culto della Madonna attraverso un delicato aneddoto: quando, durante la fuga in Egitto, la Sacra Famiglia passò accanto a un cespuglio di menta, la madre di Gesù, spossata dal caldo e dal lungo viaggio, disse: «Che profumo fresco! Se solo questa pianta potesse anche dissetarci!». Ed ecco che, come per magia, dalle cime dei rametti di menta, sgorgarono piccole gocce di acqua fresca. Maria diede queste gocce da bere al suo bambino e poi battezzò la menta “erba santa” o “erba buona”.
Un’erba femminile, dunque. Resiliente, capace di resistere al grande caldo così come al grande freddo e di fornire ristoro e sollievo a chiunque si imbatta nelle sue macchie odorose, a bordo sentiero.

L'aiuola di menta nel mio orto-giardino

Weyward

Tre generazioni di donne, le Weyward, che, dal XVII secolo ad oggi, sono unite da un unico misterioso destino. Il romanzo d'esordio dell...